Indipendenza è sapersi misurare con se stessi - Marta Migliosi
Marta Migliosi da pochi mesi è diventata consigliere nazionale UILDM. A lei è stata affidata una delega importante, quella al Gruppo Giovani. Uno dei temi a cui tiene in modo particolare è la Vita Indipendente, un progetto che ancora non è conosciuto a fondo da tante persone con disabilità. In questa intervista racconta il suo percorso e cosa l’ha portata a impegnarsi per far sì che altri giovani come lei possano crescere e mettersi alla prova.
Come hai conosciuto la possibilità di intraprendere un percorso di Vita Indipendente?
Il mio percorso di Vita Indipendente è iniziato da un bisogno personale. Avevo deciso di andare a studiare fuori città, a Bologna, quindi dovevo organizzarmi e capire come gestire i miei assistenti personali. In Sezione ad Ancona qualcuno che già aveva intrapreso il percorso mi ha dato le prime informazioni. Mi sono poi rivolta agli assistenti sociali per ottenere i fondi previsti dalla Regione Marche.
Quali sono le difficoltà principali che si incontrano in questo percorso?
Le difficoltà principali sono legate a come sia la famiglia, sia la persona con disabilità guarda a sé stessa. Un percorso di Vita Indipendente porta inevitabilmente a un cambio di ruolo e non è facile “guardarsi” in modo nuovo. Per la famiglia questo si traduce in papà, mamme, sorelle e fratelli che non sono più “assistenti di…”. Devono in qualche modo reimparare il proprio ruolo e questo passaggio può portare a degli scontri, nati dal cambiamento. Ma lo stesso vale per la persona che ha scelto di essere indipendente. Anche lei mette in moto meccanismi differenti rispetto a quando viveva in famiglia. Deve cavarsela da sola.
Spesso chi ha una disabilità pensa che un percorso di Vita Indipendente sia troppo difficile da iniziare, perché fa fatica a pensarsi in quella situazione. Dall’altra parte invece ci sono le famiglie che magari, accettata la situazione, vengono abbandonate a sé stesse. Molte per esempio non vengono seguite da uno psicologo, mentre invece vanno accompagnate proprio perché è una strada che riguarda anche loro, non solo chi esce di casa. La relazione è alla base di tutto. In questo passaggio gli assistenti sociali devono essere presenti e seguire le famiglie.
Come è nato invece il tuo impegno a livello politico, in Regione Marche?
La prima volta che ho chiesto il contributo regionale non sono riuscita ad ottenerlo. È partito tutto da lì, dovevo capire cosa non aveva funzionato e ho capito che quello che era successo a me poteva essere utile ad altre persone, e sensibilizzare su questo tema. Pian piano sono arrivata a partecipare al tavolo del Comitato marchigiano per la Vita Indipendente.
Dal punto di vista legislativo c’è molta iniquità in Italia. Quali sono i nodi da sciogliere?
Tutte le Regioni ricevono dal Ministero i fondi. L’iniquità nasce dal fatto che il sistema non “ragiona” sulle persone ma per ambiti territoriali. Questo significa che se io risiedo in un ambito territoriale che non ha partecipato al Bando regionale, non ricevo nulla, anche se ne ho diritto. Non è la persona al centro. Questo tipo di situazioni esistono anche per mancanza di una legge, quindi ogni anno si riparte da zero. Dove ci sono persone con disabilità già impegnate e attive è più facile far comprendere alla Pubblica Amministrazione il nostro punto di vista. Il cambiamento da innescare infatti è culturale. Il punto non è ricevere più soldi, ma destinarli dove servono. Per fare questo è necessariomettere la persona al centro perché so lo lei conosce a fondo le sue priorità. In questo modo si passa dall’assistenzialismo al guardare la persona con disabilità come un protagonista attivo e non passivo, che riceve e basta. L’altra difficoltà sta nel far comprendere il lato pratico di un percorso di Vita Indipendente. Le persone con disabilità vanno riconosciute come cittadini: non si tratta solo di riconoscimenti economici ma di costruire e aiutare a difendere i propri diritti. In molti altri Paesi esteri questo approccio è ribaltato. In Svezia ad esempio lo Stato eroga i contributi direttamente alla persona, ed è lei a gestirsi. Anche questa modalità ha dei rischi, quello dell’isolamento in primis. L’equilibrio secondo me sta nel mezzo, costruendo insieme questi strumenti.
Intraprendere un percorso di Vita Indipendente è una possibilità conosciuta tra le persone con disabilità?
La possibilità di costruire una Vita Indipendente non è conosciuta ancora a fondo da chi ha una disabilità. Questo secondo me deriva dalla cultura italiana, ancora legata all’assistenzialismo familiare. Dopo il boom negli anni ’90 di comunità – famiglie e centri diurni, c’è stato un cambiamento sociale che ha portato all’isolamento e alla chiusura. Questo ha fatto sì che le informazioni non arrivino correttamente a tutti. In questo passaggio hanno una grande responsabilità sia i servizi sociali ma anche le associazioni come UILDM. Dobbiamo essere attivi, chiari e concreti. Con questo voglio dire che bisogna attivarsi su più fronti. Organizzare convegni, creare community, ad esempio. Nel mio piccolo anch’io ho cercato di dare informazioni a chi mi ha chiesto come poteva organizzarsi, e mi ha dato molta soddisfazione. Informazione per me è anche creare una riflessione a livello nazionale, per domandarsi come vogliamo gestire questa situazione.
Cosa significa indipendenza?
Per me indipendenza è cosa posso o non voglio fare, in ogni momento della giornata. È avere qualcuno a cui posso riferirmi per potermi organizzare. Vuol dire anche sganciarsi dalla famiglia e imparare a misurarsi. Io ho avuto la fortuna di nascere in una famiglia che è sempre stata sensibile ai temi sociali. Con UILDM ho proseguito la strada. Ho intrapreso anche un percorso con una psicologa, per capire a fondo quali sono i miei desideri, cosa voglio effettivamente realizzare.
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